Storie di marca: cosa funziona, cosa non funziona più
Ho già parlato dell’importanza strategica di saper raccontare una buona storia (in questo post).
Voglio soffermarmi ora sulle storie di marca, cioè sui racconti che le aziende fanno di sé e dei propri prodotti.
Quello che percepisco è che molti brand hanno un registro di comunicazione che risulta un po’ “fuori tempo”, cioè fuori sincrono con il mondo che abbiamo intorno. Il loro marketing, il loro stile di comunicazione è ancora sintonizzato sui cliché del “secolo scorso”.
Il secolo scorso era solo vent’anni fa ma sembra passato molto, molto più tempo, alla luce del clima culturale che si respira oggi.
Guardati intorno…
La sfiducia, la disillusione, il disincanto caratterizzano il cittadino del nuovo secolo e millennio. Non solo in rapporto al consumo, ma anche nella sua relazione con lo Stato, i partiti, le aziende, il lavoro. Siamo sempre più al centro di un mondo segnato dall’incertezza e dalla precarietà.
La maggior parte di noi, almeno in questo paese, ha una palpabile ansia per il presente e una visione pessimista del futuro. Ci sentiamo sempre più “spersi” in un mondo spazzato da raffiche di cambiamenti continui, che ci disorientano e ci fanno percepire tutta la nostra fragilità.
A queste persone si rivolgono oggi le aziende. E a queste persone tanta comunicazione propone ancora un mondo patinato e senza incertezze. Che offre solo immagini e simboli da venerare. E un concetto di “successo” piatto e stereotipato. Ecco, questo è il modo vecchio di raccontarsi. Artificiale e mummificato.
L’effetto che produce questa comunicazione è, in certi casi, quasi doloroso.
Il consumo si è consumato
Non è facile sintonizzarsi con lo “spirito di questo tempo”.
Ma la comunicazione di marca deve cambiare perché il mondo intorno a noi è cambiato. Pena perdere il contatto con la realtà e con le persone che la abitano.
Di recente ho letto un buon libro su questo tema – Existential Marketing, scritto da due italiani, un sociologo e un pubblicitario. Prendo un passaggio del libro perché fotografa bene la situazione:
I servizi, ancorché “personalizzati”, e i prodotti, per quanto “innovativi”, non mostrano più la solidità di un tempo. Il relativo acquisto e la relativa ostentazione rafforzano sempre meno l’identità dei consumatori. In termini simbolici, cioè culturali, possiamo vedere che il consumo sta gradualmente perdendo la propria capacità d’ingaggio nei nostri confronti. Esso non ci descrive più, non ci consola, non ci esalta, non rappresenta più un traguardo, non enfatizza più la nostra appartenenza a determinate classi sociali, professionali, o gruppi di altro tipo”
Non è così? Non è così anche per te?
Credo che in questo contesto, se i prodotti non sono più capaci di esaltarci, forse sono i racconti e le storie (e il senso che contengono) che possono aiutare le aziende a recuperare una relazione significativa con il loro pubblico.
Già, ma quali storie?
Buttare via il repertorio di trucchi e di trovate del vecchio marketing non è facile. Anche perché bisogna trovare qualcosa da mettere al loro posto. Cambiare paradigma non è mai semplice. Ma è davvero urgente che i brand comincino a raccontare una “storia diversa” se vogliono sperare di essere ascoltati da chi sta al di là di un televisore o di un computer.
In quali storie credo
Credo che le aziende (e i loro consulenti di comunicazione) debbano iniziare a pensare seriamente come raccontare:
- storie capaci di instaurare legami con il pubblico basati sulla risonanza di valori comuni (non solo storie finalizzate alla vendita o fidelizzazione di un cliente)
- storie in grado di generare interessi, attività e iniziative nel mondo reale (non fatte solo di “dichiarazioni e affermazioni”, tipiche del vecchio marketing)
- storie che dimostrano la missione sociale dell’azienda, in un mondo dove l’etica e la responsabilità stanno diventando elementi fondamentali di differenziazione. Elementi che il pubblico inizia a cercare e premiare, alla ricerca di un “senso” che arricchisca l’acquisto.
- storie in qualche modo “aperte”, a cui il pubblico possa partecipare, che favoriscano la connessione fra le persone, che offrano nuove chiavi per sperimentare la socialità.
- storie capaci di generare esperienze che promuovano il cambiamento e l’arricchimento culturale. Nella loro forma più riuscita, esperienze trasformative, evolutive.
Sembra ambizioso. E infatti lo è. Ma è l’unico modo per mettere nuova benzina nel motore stanco della relazione fra i brand e il loro pubblico.
Con un punto di attenzione cruciale: trovare buone storie non è un esercizio di furbizia narrativa (collegata a quello che racconto) ma di onestà di business (collegata a quello che faccio tutti giorni). Interiorizzare questo concetto fa sì che l’azienda diventi sempre di più, giorno dopo giorno, la storia che racconta.
Secondo me, infatti, i brand che in futuro avranno successo e godranno di vero rispetto saranno quelli che non solo “raccontano buone storie” ma quelli che “diventano quelle storie”.
Un esempio per tutti
Ancora meglio se l’intero tuo business “è una storia” che vale la pena essere raccontata. Cioè se la tua idea imprenditoriale ha dentro un meccanismo narrativo che gioca a tuo favore.
È il caso di TOMS Shoes. Il suo fondatore, Blake Mycoskie, è un americano che nel 2006 fa un viaggio nelle zone depresse dell’Argentina dove si accorge che molti bambini sono così poveri che non hanno neanche le scarpe. Cosa che causa loro parecchi problemi di salute.
Tornato negli USA, Mycoskie decide di creare un’azienda di scarpe con un modello di business originale: per ogni paio di scarpe vendute lui regala un paio di scarpe ai bambini che ne hanno bisogno.
Il modello di business è chiamato “One for One” e funziona perfettamente (il costo delle scarpe regalate è incorporato nel prezzo delle scarpe vendute). In questo modo Mycoskie mette insieme un’azienda profit e una causa no-profit.
Oggi TOMS Shoes è un’azienda con un business in continua crescita, che in questi anni è riuscita a regalare 35 milioni di scarpe (!) ai bambini di 70 paesi del mondo.
Ma la cosa interessante è la forza della storia che ho appena raccontato: che è il vero volano del successo dell’azienda.
Chi compra le TOMS shoes è gratificato dal fatto che, attraverso il suo acquisto, ha fatto anche una buona azione. E in più ha una storia da raccontare.
Quando incontrerà un amico, che nota le sue scarpe nuove, per lui sarà irresistibile raccontare la storia: notare che è una storia semplice da ricordare e semplice da raccontare.
E così la storia viene “passata” a qualcun altro, che la racconterà la sera stessa a cena. Perché è una bella storia. E tante altre persone la sentiranno e scopriranno che esiste un’azienda che si chiama TOMS Shoes che fa scarpe. E state sicuri che, prima o poi, vorranno anche loro un paio di quelle scarpe. Per sentirsi bene con sé stessi. E per avere una buona storia da raccontare.
Questa è la forza delle storie. Specialmente quelle che parlano della condotta e dei valori di un’azienda e di chi la guida.
Perché in un mondo di assoluta abbondanza materiale come quello in cui viviamo, in cui tutti i bisogni primari sono stati soddisfatti, le persone sono alla ricerca del “senso” di quello che fanno. E di quello che comprano.
Confermando quello che Seth Godin ha detto a suo tempo:
“Oggi le persone non comprano beni o servizi. Le persone comprano relazioni, storie e magia”.